Città Felici E Lavoro - SKOPIA Anticipation Studies Blog

Città Felici E Lavoro

IL BICCHIERE MEZZO VUOTO

Avrei voluto inserire compulsivamente la parola “futuro” o “futuri” nelle brevi considerazioni che seguono su un argomento che è senza dubbio… un’incertezza autentica. Ma poi mi sono detto: “Esistono già città felici nel mondo?” Può darsi, ma sicuramente si tratta di una “condizione a tendere” anche per quelle città che non l’hanno raggiunta – molte ancora, immagino – e quindi per definizione una condizione di futuro.

Ma perché come futuristi dovremmo occuparci di città e perché insistere su una cosa tanto ovvia come la felicità che vogliono tutti?

Innanzitutto perché esiste un megatrend che ci dice che nei prossimi decenni continuerà imperterrito l’inurbamento, anche se in Europa avverrà con dinamiche e numeri (molto) inferiori rispetto ad altri continenti e assisteremo anche a controtrend interessanti a livello locale.

E questo non solo e non tanto perché, come è successo per tutto il Novecento e succede ancora oggi ma con dinamiche del tutto diverse, si “cercava un lavoro” e le città offrivano e offrono qualche chance in più, ma perché le metropoli, anche le medie e piccole città delle nostre province, sono di fatto un concentrato di attrattive. Quindi, non solo la maggior parte delle persone vive in città, e già questa semplice constatazione – visto che gli esseri umani sono propensi alle relazioni – è una riposta convincente alla domanda che ci siamo posti, ma di fatto laddove c’è una città che “funziona” bene, questa riesce a sostenere anche il suo hinterland e quindi a creare benessere (che è meglio della semplice “ricchezza”) anche su un territorio più vasto.

Riteniamo poi che sia opportuno occuparsi delle città in un’ottica lungimirante di futuro perché rappresentano contemporaneamente l’epicentro della maggior parte delle preoccupazioni che percorrono la nostra contemporaneità: producono più inquinamento delle campagne, subiscono e subiranno danni maggiori a causa della crisi climatica, hanno seri problemi di mobilità, consumano un sacco di energia e, almeno per quanto riguarda l’Italia, risentiranno prima e in maniera peculiare di un altro megatrend: l’invecchiamento della popolazione.

Passiamo ora alla seconda domanda. Perché porci l’obiettivo di avere finalmente città felici? Perché non basta progettare città “smart”! Siamo troppo concentrati a immaginare le nostre città piccole e grandi come grandi laboratori di tecnologia, a riempirle di telecamere e sensori nella convinzione che la tecnologia risolva tutti i problemi e che sia autosufficiente per aumentare il benessere degli abitanti. Noi crediamo invece che dovremmo pensare prima di tutto a città in cui le persone stiano bene, abbiano vite soddisfacenti, possano avere l’opportunità di essere felici, ciascuno a modo suo. Anche con la tecnologia, ma non solo con la tecnologia.

E quali sono gli ingredienti che possono rendere “felici” gli abitanti di una città, grande e piccola che sia, tanto da renderla tutt’intera felice? La lista potrebbe essere lunga, ma mi limiterei a citare solo alcune priorità: che offra e promuova la salute, che agevoli la libertà di muoversi a costi contenuti o gratis per vivere meglio le relazioni, anche quelle di lavoro, che semplifichi la vita ai propri abitanti in tutti gli ambiti della vita ma soprattutto nel bilanciamento tra vita lavorativa e vita privata. Come si vede il tema lavoro entra già almeno due volte nell’elenco! Forse aggiungerei ancora: che “protegga” i suoi cittadini non solo in relazione alla sicurezza e alla tutela dei loro spazi privati, ma anche in termini di resilienza collettiva verso shock economici, ambientali e/o medici.

Lavoro e città, come stanno le cose? O meglio quali possono essere le prospettive sul medio e lungo termine?

Si può avere l’attitudine a vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Oggi mi sento un po’ meno ottimista e proverò a fare un paio di considerazioni da bicchiere mezzo vuoto. Se supponiamo che lo sviluppo nei prossimi decenni del nostro secolo sarà quello mostrato dalla figura sotto, allora potremmo dire che si sta profilando una potenziale polarizzazione tra lavori ad alto contenuto di conoscenza e/o tecnologia e reddito elevato da un lato e lavori usuranti a basso contenuto di conoscenza e/o tecnologia e a basso reddito dall’altro. L’automazione e l’uso dell’intelligenza artificiale cominciano a erodere “posti di lavoro” principalmente nelle mansioni impiegatizie, circostanza che, soprattutto nelle città, potrebbe portare ad una forte contrazione del cosiddetto “ceto medio”, e le sempre più marcate differenze fra livelli sociali non sembrano essere compensate da un miglior funzionamento dell’ascensore sociale, rallentando o fermando – come sembra succedere oggi in Italia – la mobilità sociale. Anche e soprattutto nelle città.

Corollario di questa evoluzione sembrerebbe essere anche un cambiamento della “geografia del lavoro nelle città”. La remotizzazione parziale del lavoro, catalizzata dalla pandemia – le tecnologie e le condizioni potenziali di realizzazione esistevano infatti già prima! –, sta ridisegnando le modalità delle prestazioni di lavoro nelle città, soprattutto impiegatizie. Che fine faranno i luccicanti grattacieli delle metropoli che ospitavano migliaia di “colletti bianchi” e che anche nelle nostre città erano ancora in costruzione o in progettazione fino alla pandemia? Oggi, che una nuova consapevolezza di altre priorità della vita fa rifiutare, ad esempio a molti giovani e meno giovani, un lavoro ad una distanza ritenuta non compatibile con i propri ritmi di vita e i propri affetti e interessi privati. C’è chi prevede il ridimensionamento dell’offerta di uffici su volumi minori e disposti in punti strategici del tessuto urbano, più attraenti e più facilmente raggiungibili dalle persone, parlando di “quartieri qualificati” rispetto ad altri “quartieri indifferenziati”. Ancora un riferimento ad una polarizzazione anche topografica nelle città? E allora dove va a finire la nostra “felicità urbana”? Diventa appannaggio di alcuni e non di altri?

Forse possiamo intravvedere un’altra soluzione alla polarizzazione sociale e lavorativa all’interno delle città rispetto al panorama di futuro appena descritto. Il filoso Massimo Cacciari tra gli altri ci ricorda che forse siamo alla fine del lavoro inteso come “labor”, del lavoro necessario (faticoso e “obbligatorio”) per produrre la ricchezza in senso capitalistico. Scienza e tecnica hanno abilitato il “lavoro dello spirito” che però rischia di diventare un vantaggio per gli “happy few” che vi possono accedere perché, appunto, lavoratori dello spirito (quelli che stanno “sopra” nella nostra “clessidra” del lavoro del XXI secolo). Ci sono due alternative per evitare la polarizzazione e lo scontro sociale: o si provvede in senso assistenzialistico per quelli che non possono partecipare direttamente al “lavoro dello spirito” (ad es. attraverso varie forme di redditi cosiddetti “universali”), oppure si redistribuisce la ricchezza comprendendo che tutti sono “diversamente abili e attivi” e producono quanto meno informazioni (patrimonializzazione dei dati), chi direttamente nei nuovi sistemi intangibili del lavoro della conoscenza, chi al di fuori. Il consumo – soprattutto nelle città! – è diventato produzione di valore (di dati, di dati per l’automazione), ma c’è chi gode oggi di questa ricchezza (pochi: le grandi piattaforme digitali dei big player dell’informatica) e chi no (la maggioranza) perché non ne ha consapevolezza.

L’elemento chiave per ridurre queste disuguaglianze è l‘educazione che crea una popolazione più autonoma e responsabile in grado di pretendere la propria parte (ad es. giusta remunerazioni per la produzione dei dati). E in questa direzione potremmo approfittare della congiuntura della Quarta rivoluzione industriale: alla distruzione di posti di lavoro impiegatizio “analogico” e al picco di pensionamenti potremmo contrapporre la vera digitalizzazione e l’automazione, diminuendo come nelle passate crisi o rivoluzioni del passato l’orario di lavoro e aumentando ancora una volta la produttività. Chiaramente attraverso sperimentazioni anche sociali. E quale posto migliore dove farle, se non le città che possono offrire anche migliori “ammortizzatori” nella transizione?

Ed ecco un altro motivo per occuparsi delle città: si prestano a fare “esperimenti” perché la via verso la felicità (collettiva) nelle città è fatta anche di tentativi, di prove per vedere cosa è meglio per i cittadini, cioè per le persone che in carne ed ossa “abitano” le forme di aggregazione urbane.

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Antonio Furlanetto
Antonio Furlanetto
Dopo la laurea in Germanistica presso la facoltà di Trieste (ma anche Berlino e Lubiana) ha conseguito il Master in Diritto delle Responsabilità Civili presso l'Università di Genova, specializzandosi poi nel problem solving transnazionale e nella risoluzione dei conflitti culturali. Ha frequentato il Master in Previsione Sociale presso l'Università di Trento. Quando approda in -skopìa porta con sé oltre vent'anni di esperienza professionale nel settore delle assicurazioni (sinistri internazionali, fino al ruolo di country manager), nel risk manager (è socio di ANRA) e nel business aziendale per contribuire alla costruzione dei prodotti dedicati alle imprese e alle amministrazioni pubbliche.